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Amir: un nome, un destino


 
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Amir Issaa è conosciuto come il “rapper di Torpignattara” e lui ne va fiero quanto per le sue origini, che da una parte gli regalano tratti somatici che evocano antiche statue egizie, e dall’altra sanciscono una genuina romanità. Amir “l’inossidabile”, che nei suoi versi infila l’anima di un bambino ferito da una vita iniziata duramente, ma che ad un certo punto gli consegna la chiave per trasformare il dolore in comprensione: la musica, i versi vissuti, la poesia ritmica e rimata del Rap. Il destino era già scritto nel suo nome, che letto al contrario ci svela la parola “Rima”. E Amir si apre al mondo, componendo pezzi che si fanno notare, come “Cinque del mattino”, “La mia pelle”, “Questa è Roma”, “Shimi”, “Non trovo le parole” (bellissima dedica alla mamma), solo alcuni della sua corposa discografia, più di 200 brani scritti dal 2000 ad oggi. L’assegnazione del Premio Cinema Giovane 2012 alla colonna sonora di “Scialla”, scritta con The Caesar, lo consacra al grande pubblico, facendogli ottenere anche un secondo posto ai David di Donatello e una candidatura ai Nastri d’Argento. Il video del pezzo, diretto da Gianluca Catania, si aggiudica il Premio Roma Videoclip. Amir si racconta a noi, ci fa conoscere meglio la sua musica e i suoi progetti, il suo impegno sociale costante e libero da qualsiasi schema. Ci regala anche frammenti della sua vita, trasmettendoci la voglia di migliorasi sempre, come artista e come essere umano.

Siamo abituati a pensare la musica Rap come un genere rivolto prevalentemente ai giovani. Corrisponde alla realtà questo?

Il genere musicale nasce in America verso la fine degli Anni 70 e in Italia è arrivato molti anni dopo, quindi oggi viviamo quello che lì è già avvenuto tempo fa. In Italia tutto arriva con un po’ di ritardo, purtroppo, specialmente nel settore musicale. Negli ultimi anni stiamo vivendo la diffusione del Rap a livello popolare e nelle classifiche musicali sono presenti dei rapper anche giovanissimi, la maggior parte degli ascoltatori sono adolescenti e giovani, per tale motivo è legato alla fascia giovanile, ma già fra dieci anni ci saranno ascoltatori di musica Rap che avranno trenta-quarant’anni. Quindi oggi nel 2015 è ovvio che il genere sia legato più alla fascia giovanile però non è un genere musicale che si rivolge solo ai giovani. Va detto che è un genere autobiografico, dove tu ti racconti, è ovvio che i testi con cui ho iniziato a 16 anni non sono quelli che scrivo adesso. A volte alcuni ascoltatori dicono di preferire i tuoi dischi precedenti, ma quindici anni fa ero un altro tipo di persona.

- Che particolarità ha una canzone Rap?

Nel 90% dei casi le canzoni nascono da esperienze personali e sono molto esplicite. Ti faccio un esempio: un rapper spesso parla di se stesso. Io spesso nelle mie canzoni cito ripetutamente il mio nome, il quartiere da dove vengo, ho parlato di mia mamma, di mia sorella, di mio padre. Difficilmente sentirai una canzone di un artista pop cantare di se stesso e della sua vita reale. La cosa bella è che quando inizi a parlare di te, credi che la storia sia solo tua, invece ti rendi conto che stai parlando di tanti altri che si identificano, e questo l’ho scoperto dai tanti messaggi che mi arrivano. Io, Amir, nato a Roma, figlio di un immigrato, e vissuto a Torpignattara, sto raccontando la storia di tanti altri. Per me la battaglia più grande è sempre stata quella di voler dare ai ragazzi che hanno vissuto esperienze simili alle mie una speranza, un incentivo, dar loro forza. Io ero il cavallo perdente, quello su cui nessuno avrebbe mai scommesso un euro, e oggi sono riuscito a fare di questo il mio lavoro, e a modo mio sono realizzato.

La voglia di trasmettere qualcosa agli altri si rispecchia anche nel tuo impegno sociale. Questo imput ti viene anche dalla musica Rap?

Certo. Quando ero piccolo guardavo i rapper americani, che sono quelli a cui mi sono ispirato e per loro il massimo era poter elevare il loro quartiere. Ad esempio un rapper come Jay Z che oggi è miliardario, continua a parlare di Brooklyn, il quartiere da dove viene. Per un rapper autentico è importante portare con sé tutto il suo bagaglio: la famiglia, gli amici, la sua città. Io ho dedicato una canzone a Roma, dal titolo “Questa è Roma”, e tanti altri rapper lo hanno fatto. Si citano anche i nomi di altri rapper, giocando a sfottersi. E’ un genere sicuramente particolare, che ha dietro anche uno stile di vita.

E’ necessario avere alle spalle un vissuto forte? Le nuove generazioni che ci giocano, non possono essere considerati veri rapper?

Sono dei rapper a tutti gli effetti, perché rispecchiano l’attuale società. Il Rap va di pari passo con l’evoluzione della società. I rapper americani che hanno iniziato a cavallo tra gli Anni 70 e 80 rappresentavano quel momento storico, soprattutto a New York che è la città natia e in particolare nel quartiere del Bronx. Era un epoca in cui c’era ancora molta discriminazione verso i neri, ad oggi la situazione è cambiata. Una regola soltanto, che non è scritta da nessuna parte, vale per il Rap: bisogna essere “veri”, autentici. Per il resto, tutti possono reppare, non si deve necessariamente aver avuto una vita difficile o aver avuto a che fare con la droga, questi sono solo degli stereotipi arrivati dai media. Come per chi suona il Metal, che viene accostato per forza al satanismo. Lo dico sempre quando vado nelle scuole ed è molto importante, non deve passare il messaggio che per fare il rapper devi aver avuto problemi o devi essere un ragazzo disagiato, perché altrimenti ci ritroviamo con dei ragazzi che hanno una vita tranquilla e si mettono a fare i rapper inventandosi. Così non funziona, un appello che voglio fare ai giovani che iniziano a fare il Rap è di essere autentici e non vergognarsi di chi siano, di rappresentare la loro vita vera. Se anche venissero da una ricca famiglia dei Parioli e volessero fare Rap, benissimo, purché raccontino la verità. Una cosa che la nostra “comunità” non accetta sono le bugie… Queste prima o poi vengono fuori, la canzone è una testimonianza registrata. Quando ho scritto “Cinque del mattino” che raccontava l’arresto di mio padre e la polizia che entrava in casa, nessuno l’ha messo in dubbio. La verità viene fuori anche a livello di energia trasmessa, se canto delle “cavolate” non posso riuscire a convincere il pubblico. “Keep it real” è un termine americano che rende bene questo concetto: “Mantieniti vero”.

Nelle gare di freestyle si punta alla velocità dell’interpretazione. I testi devono mantenere sempre un senso?

No. Nei miei dischi può capitare di ascoltare pezzi impegnati ma anche canzoni semplicemente “stilistiche”, spesso auto-celebrative, ed è una componente fondamentale. Si deve considerare un “mezzo” espressivo. Un esempio che calza a pennello è quello del cinema: se vedi solo un film di Fellini non puoi farti l’idea che il cinema sia soltanto quello. Il cinema è un mezzo per raccontare la vita, esattamente come il Rap. L’esaltazione di se stessi è fondamentale perché quando negli Anni 70 si iniziò a fare Rap nel Bronx, i cantanti aveva l’esigenza di auto-celebrarsi per riscattarsi dalla loro vita disagiata. Adesso è cambiato tutto, ci sono canzoni Rap che sono solo finalizzate a farti divertire e ballare, e va benissimo. Non bisogna, ora come ora, associare per forza il Rap ad uno stile di vita.
Le cose cambiano di pari passo con la società, oggi le persone hanno voglia di essere più frivole, non sono così impegnate come nel ’68, e così anche il Rap può essere solo puro intrattenimento.

Come riuscite a cantare tanto velocemente? Fate degli allenamenti?

Giochi con le parole, le metafore. Basta partire da un argomento preciso, mettendolo a fuoco. Il trucco che suggerisco ai ragazzi è quello di pensare a ciò che vogliono raccontare, fotografare una storia. Il resto è tecnica, e anche allenamento. Ad oggi sono molto più istintivo, mi basta una penna e un foglio. All’inizio scrivevo almeno un testo al giorno, mi esercitavo. Leggere è importantissimo! La provocazione che faccio agli studenti è proprio quella di non seguire gli stereotipi del ragazzo ignorante che fa Rap, in realtà i rapper più forti sono persone colte, che hanno studiato e che leggono tantissimo. Devi avere necessariamente un buon vocabolario, se non leggi libri, se non ti informi su quello che succede nel mondo, che cosa puoi raccontare e quali parole usare? Quando faccio queste domande ai ragazzi, rimangono a bocca aperta, perché scardino quella idea che avevano rispetto al rapper ribelle che non studia. Invece il “secchione” magari è il perfetto candidato a fare Rap. Se hai storie forti da raccontare ma non hai parole, lessico, non puoi farcela. Poi, un trucco sono le “routine” ovvero quando ti alleni per il freestyle ci sono dei “cuscinetti” a cui appoggiarti quando ti mancano delle parole per continuare. La tecnica dietro c’è, non tutto è improvvisato. Un aspetto del freestyle ultimamente è la scelta dell’argomento fatta dal pubblico, a sorteggio. Lì devi essere bravo e preparato su tutto. Il mood è lo “sfottò”, il prendersi in giro tra i contendenti in gara. Chi è più preparato ha maggiori chance. Io per esempio ho la terza media, a causa dei tanti problemi familiari, però mi sono documentato molto, ho letto tanti libri (anche grazie alla mamma di mio figlio che aveva in casa una libreria enorme) e ad oggi non mi sento inferiore rispetto agli altri che hanno avuto più mezzi di me. Va sottolineato che tanti ragazzi non amano i libri perché la scuola costringe alla lettura di classici troppo lontani dalla realtà, andrebbe rivista questa cosa. Anche per me è stato così, poi un giorno ho curiosato nella immensa libreria della mia ex compagna e ho incrociato un titolo: “L’opinione di Ice T”. Ice T è un famosissimo rapper di Los Angeles che nel libro racconta la verità sul suo mondo. Mi sono talmente immerso nella lettura che nessuno riusciva più a distogliermi, l’ho divorato. Mi si è aperto un mondo e da li ho iniziato a leggere. Chiunque può trovare un libro che lo interessi. Pensa a quanto si possa scoprire… Il territorio è infinito, come per ogni altra forma di arte.

Recentemente in una trasmissione televisiva Gigi Proietti ha ironicamente dichiarato di fare Rap da molto tempo, riferendosi alle sue famose filastrocche dette a tempo di record. Che ne pensi?

Guarda, ti dirò che Proietti anni fa contattò me ed altri rapper romani per fare uno spettacolo, Romeo e Giulietta in versione Rap. Conosco la figlia Carlotta, che ascolta Rap da molto tempo… E’ interessante scoprire che diverse espressioni artistiche possano avere un’anima Rap. Ad esempio c’erano dei poeti ermetici, soprattutto nel Sud-Italia, in Sardegna, che si sfidavano in rime improvvisate, esattamente come facciano noi nel freestyle. Il Rap è una forma poetica di racconto, libera, e l’improvvisazione esisteva già molto tempo fa. Ai ragazzi dico di togliersi dalla testa ogni cliché, di dimenticarsi i video su internet, gli atteggiamenti comuni, e arrivare all’essenza della cosa: rimane solo il racconto poetico.

Come vedi la gioventù di oggi?

Vedo tanto egoismo circolante. Non sentono molto il valore della condivisione, l’empatia per gli altri.

Pensi che una grande responsabilità ce l’abbiano i genitori?

Si. Parto dalla mia esperienza personale. Dall’esempio che ho avuto da mia madre è nata la mia solidarietà per gli altri e mio figlio sta crescendo con gli stessi valori che gli trasmetto io. I genitori sono fondamentali. Sono cresciuto con la speranza che il mondo diventasse sempre più simile al mio modo di vivere, soffro che non sia così.

Quando sei invitato nelle scuole, ci vai come rapper o con il tuo vissuto da figlio di un “immigrato”? Quale parte di te gli consegni e quanto interesse ti dedicano?

Tutte e due. Il Rap è stato il mezzo per raccontare al mondo tutto quello che avevo dentro. Ho nascosto i miei problemi, senza mai sfogarmi con qualcuno, per vergogna, per paura del giudizio degli altri. Ero piccolo, appena adolescente, non potevo raccontare a scuola che mio padre era detenuto. Sentivo battute razziste e facevo finta di niente. Negli anni ’80/90 crescere a Torpignattara e chiamarsi Amir Issaa era molto diverso da oggi. Adesso un ragazzo figlio di genitori stranieri vive con più tranquillità la cosa, perché c’è tutto un percorso che li ha preceduti. Il Rap è stata per me una sorta di chiave che mi ha permesso di aprirmi e tirar fuori tutte le esperienze negative. Quando io racconto una storia brutta che mi è successa è come se prendessi qualcosa di sporco dal cestino della spazzatura e la trasformassi in un fiore. Ho portato anche altri rapper in questi contesti e ti danno molto più ascolto che a qualsiasi professore, perché si rispecchiano in te. Raccontando la mia storia, la prima cosa che scatta loro in mente è: “Sei uno di noi”. Quindi è importante chi dica le cose. Noi abbiamo inevitabilmente un appeal più efficace dei loro docenti, ma in fondo è solo un esca perché il concetto di base è lo stesso del loro professore.

Ti chiedono di cantare per loro?

Si, sempre. Si aspettano un concerto, perciò la mia esibizione finale diventa una specie di premio per loro. L’importante è che nel complesso abbiano imparato qualcosa. Ovviamente nei concerti in discoteca o nei locali non mi metto a fare dei sermoni sulla mia vita! Quello è un momento di puro intrattenimento e lavoro. L’aspetto sociale e la musica sono due elementi che si alimentano tra loro, ma io voglio principalmente essere considerato un rapper che fa musica, poi il sociale è una mia attività parallela che posso fare anche grazie alla mia visibilità.

Quali altri programmi sociali hai?

Vado anche spesso a visitare le carceri, è una cosa che mi sta a cuore. Collaboro con associazioni che si occupano di detenuti, di qualsiasi età. A Casal del Marmo ho fatto un percorso di scrittura per due mesi, e abbiamo realizzato uno spettacolo, al maschile e femminile di Rebibbia, e presso la Terza Casa, carcere sperimentale sempre a Rebibbia, mi sono esibito. Avendo avuto mio padre “dentro”, so bene cosa significhi. Sono andato a trovarlo per tanti anni, quindi poter fare qualcosa per delle persone che sono li per me è importante, ha un valore per la mia vita. Mio papà non c’è più ma ogni volta che vado li dentro, è come se mi stessi occupando un pò anche di lui. E’ stato fortunato perché ha avuto la sua famiglia, noi, sempre vicini. Non mi sono mai sentito di condannarlo. Non avevo rabbia nei suoi confronti, forse anche perché non capivo, mia madre cercava di tenermi al di fuori raccontandomi che lo andavamo a trovare nel luogo dove lavorava. Lei mi ha sempre tutelato e io la ringrazio ancora. Dentro ci sono delle persone che hanno fatto degli errori. E altri sono là per un errore giudiziario. E’ sbagliato pensare che dentro ci siano i cattivi e fuori i buoni. Se io so di poter aiutare qualcuno, devo farlo. E’ una qualità che mi ha trasmesso mia madre. Sono anche stato in alcuni orfanotrofi, e in centri profughi. E’ qualcosa che mi fa stare bene. Il giorno che smetterò di fare il rapper continuerò ad aiutare chi posso. Fa parte della mia personalità.
Recentemente ho ricevuto un invito dall’Istituto di Cultura Italiana, tramite il signor Stefano Fossati, funzionario del Ministero degli Esteri, ad andare in Giappone per uno spettacolo presso l’Università di Osaka. Un’esperienza nuova ed emozionante per me, avrò anche la possibilità di collaborare con dei rapper giapponesi. Il progetto serve a dare agli studenti della cultura italiana un’immagine del nostro Paese più attuale. I giapponesi hanno una grande curiosità verso di noi. Mi ha invitato anche la Dartmouth University negli Stati Uniti, che ha una sede a Roma a Campo de’ Fiori, dove ho incontrato, grazie alla professoressa Graziella Parati, gli studenti venuti dagli USA e ospitati presso famiglie italiane. Loro anche sono affascinati dall’Italia, però la conoscono solo attraverso i cliché: cinema, moda, cibo. Tutti questi progetti sono quindi finalizzati ad aiutare i ragazzi ad avere una percezione reale di quello che è oggi l’Italia. Ed anche la mia presenza è parte di questo messaggio di cambiamento della nostra società. Un ragazzo che si chiama Amir Issaa può essere italiano al 100%, io sono italiano al 100%. Ho postato un messaggio su Facebook che commenta una mia foto di famiglia: sono fiero delle origini egiziane paterne ma la verità è che sono cresciuto in una campagna della Ciociaria, tra campi coltivati a patate e peperoni..

Ne “La mia pelle”, dici di essere cresciuto ascoltando il vento e guardando pianeti e stelle. Questo aspetto legato ai simboli della natura lo hai percepito dalla cultura di tuo padre?

Mio padre nella mia vita è stato una presenza forte ma in fondo simbolica. Io ero fiero delle sue origini ma non l’ho vissuto molto. La vita in Egitto potevo solo immaginarla. I miei parenti sanno di me e mi seguono ma non li conosco personalmente… Sono riuscito a far andare mio padre ad Alessandria l’anno prima che mancasse. Il mio proposito è quello di andare li, ma per almeno tre/quattro mesi, per riscoprire queste origini che sento dentro, ma non conosco. Dell’Egitto so quello che sai tu, perché l’ho imparato a scuola. Come vedete non si può dare per scontato che un figlio di immigrati stranieri parli la lingua dei genitori, o abbia la loro religione. Solo perché ho questo nome non significa che sono automaticamente musulmano. Equazione troppo banale. Un nome è un nome e basta. Poi la religione la ritengo un fatto estremamente privato, di cui non si dovrebbe parlare pubblicamente. Per quanto riguarda le mie canzoni, mi sono divertito a fare dei riferimenti all’Egitto, soprattutto nel periodo del singolo “Shimi” avevo iniziato ad inserire nei testi delle metafore divertenti, in finale ero più in diritto di farlo io che altri..

Hai mai pensato di fare un film autobiografico, come Eminem in “8 Mile”?

Assolutamente si, sono ambizioso e non mi fermo mai, punto sempre a qualcosa più, il mio obiettivo è lasciare una mia testimonianza che resti per sempre. In parte l’ho già fatto perché la musica è eterna, tutte le canzoni che fai rimarranno sempre, oltre la tua vita. Quindi, una biografia associata ad un film sulla mia vita è sicuramente una cosa che mi piacerebbe fare. C’è da dire che molti rapper italiani hanno pubblicato degli instant book a quattro mani, insieme ad altri scrittori ma se li leggi non trovi un grande spessore, sono più legati alla promozione di un disco, io ho sempre rifiutato certe proposte, voglio fare qualcosa di più corposo. Il ragazzo con cui ho già iniziato a scrivere la mia storia ha registrato delle cassette contenenti interviste a mio padre e a mia madre, fatte separatamente per permettere quelle confessioni che insieme avrebbero avuto imbarazzo a fare. E’ stato difficile per me conoscere certi aspetti, sono cinque anni che andiamo avanti e il momento di chiudere non arriva mai: si presenta sempre una nuova esperienza che vale la pena inserire, come l’ultima del Giappone.

Sei mai sceso a compromessi con case discografiche?

No. L’idea di aprire un’etichetta indipendente, la Red Carpet Music, insieme al mio socio G. Romano, è stata dettata in un momento storico in cui le Major investono su degli artisti che escono dai talent o che già si fanno notare per i numeri che fanno autonomamente. L’etichetta discografica non è più lo scouting che c’era anni fa, in cui prendevano un’artista sconosciuto in un locale e lo trasformavano in una star. Oggi sei già una star sul web, fai dei numeri e la major investe su di te. E’ un meccanismo che a me non piace perché’ voglio fare musica il più possibile libero dai numeri. Se voglio scrivere una canzone che parli di un tema che non interessa alla massa ma che per me è un’esigenza espressiva, lo devo poter fare anche se fa solo cento ascolti su Youtube, senza alcuna pressione addosso. Grazie alla rivoluzione di internet, oggi un artista può fare molto a livello promozionale. La forza che io ho sul web è pari a quella che potrebbe avere una grande etichetta, siamo ad armi pari. E’ un aspetto che posso apprezzare io, non certo un ragazzo di tredici anni che è cresciuto con internet e non sa come fosse il mondo prima di tale risorsa. Adesso chiunque, ha tutta la musica del mondo a disposizione. Bisogna anche adattarsi alle novità, è un segno di intelligenza. Alcuni artisti, troppo legati al passato forse, lamentano il cambiamento.. Certamente prima era tutto più autentico, ma ne abbiamo guadagnato in termini di libertà. E’ giusto anche rivolgersi al pubblico adatto, ovviamente non ci si può ostinare a fare il ragazzino se non lo sei più, e a riempirti magari di tatuaggi per accaparrarti i teenagers..

Non hai tatuaggi infatti, è una cosa insolita per un artista Rap. Come mai?

C’è un motivo particolare, legato alle detenzione di mio padre. Quando uscì dal carcere aveva dei piccoli tatuaggi, e mia madre l’ha vissuto come un marchio pesante: all’epoca erano associati ai detenuti. Mia madre mi ha sempre chiesto di non farmeli e io l’ho rispettata, non riuscivo a fare qualcosa che le facesse dispiacere. In fondo al tatuaggio potevo tranquillamente rinunciare. Ora che mia madre non c’è più ho pensato di farne uno, ma mi pareva di tradirla… Un senso potrebbe essere quello di farmi tatuare proprio il suo volto, e basta, sulla mia pelle. Dedicato solo a lei.

I tuoi progetti musicali imminenti?

Un mixtape: nel Rap si usano fare, oltre alle uscite ufficiali, diversi progetti paralleli. Ad esempio tra un album e l’altro, facciamo uscire qualche progetto minore, non in qualità certamente ma produzioni più semplici, come una raccolta. Fare un disco con i musicisti significa mettere su un’orchestra, con il rap canti sul ritmo: se ora mi metti una base musicale, ti faccio una canzone qui, e nel giro di un’ora abbiamo un pezzo. Tornando al mio mixtape, che uscirà agli inizi di ottobre, sono tredici canzoni inedite in free download, un mio regalo in attesa dell’album ufficiale a cui sto lavorando e dove inserirò anche la mia esperienza giapponese e americana. Il titolo è RadioInossidabile Vol. 3, il seguito della “saga” omonima (Vol. 1 e Vol. 2), tutti scaricabili gratuitamente collegandosi al mio sito internet www.amirmusic.it. Sempre sul sito c’è tantissima altra musica da scaricare gratis. Ciò che più mi interessa è arrivare al pubblico, e portarli ai miei concerti: cantare dal vivo è il vero incontro con loro. In un mondo prevalentemente virtuale, il concerto è il territorio dove ancora puoi fare un’esperienza reale.

Hai in programma un concerto dal vivo?

Ho avuto la fortuna di collaborare ultimamente con due orchestre: la Piccola Orchestra di Torpignattara, dove sono un collaboratore esterno, e la Med Free Orkestra con la quale ho fatto due lavori e mi sono esibito insieme a loro in due concerti, tra i quali l’apice è stato il Concertone del 1 Maggio: una botta di adrenalina pazzesca. Poi anche un concerto all’Auditorium. Effettivamente uno tutto mio non l’ho ancora fatto. Uscirò ora con un nuovo album, l’ultimo risale a tre anni fa. Ho la fortuna di avere un manager e uno staff che mi stanno aiutando nella preparazione. In anteprima assoluta, ti dirò che il sogno è quello di riuscire a presentare il mio rap, stavolta supportato da musicisti veri. Spero di riuscirci, a livello logistico-economico è più difficile, vorrei trasmettere una diversa emozione, e arricchirmi.

Come è il rapporto con il tuo quartiere, Torpignattara, e con quel che è rimasto della tua famiglia?

Dopo lo choc di uno sfratto che è coinciso con l’arresto di mio padre, ho vissuto un periodo alla Garbatella, andavo a scuola dalle suore. Dopo anni di fatica e soldi messi da parte, riuscimmo a prendere una casa a Torpignattara. Un periodo formativo, le prime uscite da solo. Considero questo il mio quartiere, in assoluto. Ora vivo in zona Ostiense, e purtroppo quando torno nella casa dove sono cresciuto è straziante, troppi ricordi. Con mia sorella ho un rapporto bellissimo, siamo molto legati, siamo rimasti noi due. Non tornerei a vivere stabilmente a Torpignattara, è molto cambiato rispetto al passato. Alcuni aspetti sono positivi, altri meno. Mi sono affezionato a Roma sud, la Garbatella mi piace molto. Ah, sono nato all’Isola Tiberina.. più romano di me!

Hai un figlio adolescente. Come vive il suo rapporto con un papà famoso?

Mio figlio è orgoglioso di questo ma non me lo dimostra. Il suo è il tipico ruolo di figlio, quindi non mi può esaltare. I suoi amici ovviamente sono curiosi. Ai tempi di “Scialla” mi aspettavano tutti fuori scuola per farsi una foto con me. Mio figlio dall’altro lato della strada, era seccato. Quando sta con me difficilmente ascolta una mia canzone, a volte vorrei condividere questo con lui, ma niente. Però so che poi con la mamma si scioglie e chiede di ascoltare qualche mio pezzo. Mi stima, sa chi sono. Scrisse un tema su di me, un tema sul razzismo dove raccontava dei miei progetti. Mi fece commuovere.. Per il resto è in quell’età in cui non si riesce a dimostrare apertamente i sentimenti. Ero anche io così a quindici anni, adoravo e stimavo profondamente mia madre ma non riuscivo a dirglielo, a ventitré anni le ho dedicato una canzone “Non trovo le parole”, quando gliela feci ascoltare lei pianse. Dovunque sia ora, ha saputo tutto il bene che le voglio attraverso quel pezzo.

Tua madre apprezzava ciò che facevi?

Era una mia supporter, aveva sempre nella borsa mazzi di volantini che mi pubblicizzavano e regalava i miei cd. Per lei è stata una vittoria, quando mi ha visto in TV per la prima volta ha realizzato che ero famoso, ero arrivato oltre il semplice guadagnarmi lo stipendio.

Quale è un ricordo particolare che ti lega a lei e che ti va di condividere con noi?

Ti racconto un episodio: mia madre era una donna molto semplice, non era mai stata a Milano e desiderava tanto visitarla. Senza volerlo, riuscii ad organizzare questa gita a Milano proprio due mesi prima che scomparisse. Prenotai il Frecciarossa, io, lei e mio figlio, una giornata intera. Prima classe, pranzo al ristorante. Siamo arrivati a Milano, ho fatto un video lunghissimo della giornata, mia madre e mio figlio che parlano, il viaggio. Non sono ancora riuscito a riguardarmelo.

Come ci vuoi salutare, Amir?

Con un appello: vorrei che venissero finanziati degli interventi diretti ai ragazzi di Torpignattara, per non lasciarli sulla strada. Creare dei centri giovani, non solo quelli per gli anziani. Bisogna occuparsi anche dei giovani, non ci si può lamentare se poi sono buttati in strada dalla mattina alla sera, rischiando di finire male. L’altra cosa che ci tengo a dire, e chiudo, voglio salutare virtualmente Ettore Ranalletta, perché mi diede anni fa la copertina del Viavai, e per me che ero stato intervistato da testate anche internazionali, è stata quella che ha avuto il significato più importante: essere sul giornale del mio quartiere. A livello simbolico, affettivo, ritrovarmi sulla copertina del Viavai con il titolo “Grazie Amir”, per me è stato il massimo. Tanti forse non lo capiranno, ma è stato più importante che avere qualsiasi altra copertina. Addirittura più importante di quando conobbi Napolitano in occasione delle nomination per “Scialla”, dove ricevetti il David di Donatello e il Nastro d’Argento.

C.Orecchini ©

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